TRIPOLI O BENGASI: da che parte stare? di Lorenzo Mortara
TRIPOLI O BENGASI: DA CHE PARTE STARE?
Analizzare gli eventi libici senza dirci quale posizione devono prendere i comunisti, equivale a mettere la testa sotto la sabbia come gli struzzi. Invece è proprio qui il lato spinoso della questione. Una volta scoppiata la rivolta che dovevano fare i comunisti? Alle prime manifestazioni di piazza in favore di Gheddafi, gli stalinisti, orfani di baffone, non potevano che schierarsi con la nostalgia di un suo replicante. «Il popolo lo ama ed è ancora con lui», scrivono nei loro blog di stupidaggini. Già solo il fatto che gli stalinisti, i “compagni” più controrivoluzionari di tutti i tempi, si siano schierati dalla parte di Gheddafi, dovrebbe essere più che sufficiente per noi per stare dalla parte di Bengasi, contro Tripoli. Perché in effetti, chi si è schierato con Gheddafi, non è il popolo, ma solo una sua parte, anche abbastanza minoritaria. Le rivoluzioni sono appunto quei momenti storici in cui il popolo si divide grosso modo in due tronconi. È tanto semplice che solo la dabbenaggine degli stalinisti può dimenticarlo. Ma noi marxisti no! Noi non abbiamo bisogno di stare con uno o l’altro dei contendenti, perché sappiamo che ne esiste un terzo, la massa appunto. Ma anche la massa sotto i colpi degli eventi può dividersi. Esistono masse progressiste e reazionarie, masse rivoluzionarie e controrivoluzionarie. Tra Tripoli e Bengasi chi rappresenta le masse progressiste? Un popolo che ama il suo dittatore è solo un popolo che odia sé stesso. Pur con tutta la comprensione possibile e la pietà, noi marxisti non faremo mai l’elogio di quei vandeani che durante la Rivoluzione francese, presero posizione per l’Ancien Régime e si schierarono con la loro palla al piede. Esattamente come il grande Oscar Wilde faceva notare che non c’era niente di più triste, per la testa pensante, di quei neri che durante la guerra di secessione americana, si schierarono con gli schiavisti invece di sgozzarne quanti più possibile! Ma se è triste vedere masse in delirio per Gheddafi, addirittura squallido vedere gente intelligente che gli tiene pure bordone, invece di contribuire in qualche modo all’abbattimento del satrapo.
Anche se Gheddafi per un po’ è sembrato riuscire a ribaltare gli esiti della guerra, tutto questo appoggio evidentemente non ce l’ha avuto. Altrimenti Nato o non Nato non sarebbe caduto. Gheddafi come la Nato ha assaltato dai cieli i ribelli. Ma proprio qui risiede una differenza fondamentale. Mentre la Nato l’ha fatto perché non ha voluto in nessun modo armare la protesta di terra, temendo che la sopravanzasse, Gheddafi non poteva armare il popolo perché più della metà gli avrebbe sparato addosso. La Nato aveva la sue ragioni per non armare le masse, ma il “leader del popolo”, per fare la stessa cosa, aveva solo il torto di non essere più il leader di nessuno. Tuttavia, l’aver messo lo scontro sul piano solo militare da parte del Consiglio Nazionale Transitorio, rinunciando in partenza al proprio pieno potenziale di massa, ha all’inizio favorito il Rais che poteva tra l’altro contare su alcuni quadri militari già sperimentati e non alle prime armi. Ed è proprio al momento dell’intervento Nato, all’apice della controffensiva lealista, quando sembrava che Gheddafi fosse a un passo dal riprendere il controllo della situazione, che i cantori del dittatore si son messi a recitare a squarcia gola le più stucchevoli poesie in memoria dei tanti benefici regalati al popolo dal vecchio regime. Non sappiamo ancora bene come i ribelli siano riusciti a ribaltare le sorti, l’intervento Nato è sicuramente stato decisivo, ma fondamentale si deve essere rivelata anche la modifica della tattica del Consiglio Nazionale Transitorio che, messo alle strette, ha allargato il fronte coinvolgendo con successo nella lotta altre masse prima snobbate.
Quel che qui mi preme contestare, da materialista, è l’uso completamente antimarxista delle statistiche pro o contro una rivoluzione. Per screditare i rivoltosi si è citato i bassi costi di tanti beni di prima necessità, il potentewelfare garantito dal regime e altre sciocchezze. Ci si è solo dimenticati di dire che, in regime capitalistico, la media del PIL pro capite è un’astrazione buona solo per ricordare, a chi evidentemente ha ancora un buona memoria, che la ridistribuzione del reddito è in mano ai capitalisti. Appoggiarsi al PIL contro la rivoluzione, significa soltanto stabilire che al posto nostro, anche per le rivoluzioni siano i padroni a dove dare il via. Che siano gli stalinisti a usare questo metro non mi stupisce, visto che sono strutturalmente incapaci di vedere le masse padrone di sé stesse, per cui, medioevali come la Chiesa, pensano sempre che debba esserci una qualche autorità – e quindi, in ultima analisi, loro o nessuno! – che debba dare l’autorizzazione per una rivolta; mi stupisce invece che si perdano nelle statistiche anche i marxisti, quando per noi una rivolta, per essere legittima, è sufficiente che chi abbia deciso di farla, la voglia! Altro metro di giudizio è del tutto ridicolo. Per noi, le masse, avrebbero avuto tutte le giustificazioni per rivoltarsi, anche qualora Gheddafi avesse concesso in anticipo le sette vergini che spettano nell’aldilà ad ogni buon musulmano. Perché, per noi, l’unico Dio che può giudicare la condizione delle masse, è in ultima analisi la massa stessa, autoresponsabile. Dietro il panegirico sul welfare libico come deterrente per le rivolte, c’è la morale del gendarme. La morale rivoluzionaria, in netta antitesi con quella dei gendarmi, se elogia il welfare, lo fa come trampolino di lancio per ulteriori conquiste, non per invitare le masse a restarsene buone e contente, accontentandosi come dei cagnolini di quello che hanno.
Le statistiche non sono sufficienti per stabilire se sia legittima o meno una rivolta, specie quando sono usate male. Ma anche fossero usate bene, bisognerebbe sempre tenere conto della loro relatività. Un popolo con la pancia piena ma con la testa prigioniera, ha tutto il diritto di sentirsi sfruttato, specialmente se grazie alle rivolte vicine, comincia a prendere coscienza del fatto che fino a quando non avrà tutto nella mani, dovrà sempre considerarsi poco meno di un povero disgraziato qual in fondo è.
Perché, comunque, sono usate male queste statistiche? Innanzitutto perché le elargizioni di una dittatura sono sempre soggette alla sottomissione e ai capricci del dittatore5. Pesano quindi molto di più di quello che può apparire ai superficiali. In secondo luogo, il PIL pro-capite, fa credere con la sua media astratta che tutti abbiano 15-18˙000 euro di reddito, quando in realtà con oltre il 30% di disoccupazione, per raggiungere una media del genere è necessaria per forza di cose un’enorme sperequazione nella ridistribuzione concreta e reale. È del PIL dei salariati che dovremmo occuparci, non del PIL interclassista. Proprio per questo e per altre ovvie ragioni, un’aspettativa di vita di 78 anni, non riguarda il futuro dei libici, perché è di fatto desunta più dal presente sulla base del recente passato che altro. Per chi è disoccupato cronico, 78 anni di longevità, non sono un’aspettativa di vita, bensì di un’incessante tortura. E infatti, chi c’è dietro i rivoltosi che si sono ribellati al Torquemada libico? C’è il volto bello e genuino dei tanti giovani senza speranza della Libia, quegli stessi giovani che vogliono emigrare e che vengono rispediti indietro dagli imperialisti con cui s’è accordato il Rais. I giovani libici sanno quel che li aspetta, non 78 anni di vita, ma la morte prematura nei campi di concentramento allestiti dal dittatore per i miserabili a cui non ha altra soluzione da offrire6.
C’è ancora da dire che le stesse persone che negano le basi sociali della rivolta libica, in virtù di un presunto benessere dei prigionieri di uno«scatolone di sabbia», sono le stesse persone che giustamente chiamano se non alla rivolta, almeno alla protesta permanente qui Italia e in tante altre parti del mondo, contro le manovre lacrime e sangue di tutti i governi. Se in Italia un Pil da 25˙000 euro a testa non è sufficiente per ritenersi al riparo dalle rivolte, a maggior ragione non dovrebbe esserlo quello libico che ne garantisce un quarto di meno. Ma la verità è che basterebbe vedere quel che è successo a Londra per capire che non c’è angolo del globo capitalistico che possa dimostrare, numeri alla mano, che non ci sono le ragioni per una sommossa. In verità, è l’esatto contrario: tutte le statistiche dicono chiaro e tondo che le condizioni perché succeda quel che sta succedendo ci sono tutte e dappertutto, Stati Uniti compresi.
Da Londra a Tripoli, come da Atene a Teheran, un filo conduttore tiene insieme le piazze di tutto il mondo: è il sottoproletariato che è in prima linea nell’attuale fase di scontro col Capitale. Questo spiega, tra le altre cose, anche gli aspetti più brutali e puramente vandalici delle rivolte. Proprio perché è abbandonato, disgregato, il sottoproletariato è molto più indisciplinato e anarchico del proletariato vero e proprio. Questo si tiene ancora nell’ombra, in disparte, tramortito dalla troppa paura che ha di perdere quel poco che ha7. Fa fin male vedere come venga snobbata questa parte così martoriata della nostra classe. Per il compagno Achilli trattasi soltanto di «tribù cirenaiche penalizzate nella distribuzione della ricchezza petrolifera nazionale», altro che ribelli! Eppure questi tribali altro non sono che il nostro esercito industriale di riserva che ha capito che resterà per sempre in panchina e ne ha giustamente le palle piene! È gente talmente sfruttata che non ha nemmeno la possibilità di essere sfruttata come gli altri.
Nei paesi sotto il tallone di ferro dell’imperialismo, il proletariato autoctono resta al pari della borghesia rachitico. Mentre la borghesia diventacompradora al soldo dell’imperialismo, il proletariato si sfilaccia, si disperde e infine collassa nel mare dei lumpenproletariat. Quel che ne esce è un mix di capitalismo e di regime semi-feudale che sprofonda sempre di più, incapace di portare a termine una vera e propria rivoluzione borghese.
Proprio perché una rivoluzione borghese non è mai stata portata a termine, Bengasi ha potuto per ora dirottare la protesta sociale verso la richiesta di un normale programma democratico8. I giovani ribelli sono insorti per sostituire il Rais con il «lavoro». L’arretramento della coscienza ha fatto sì che la parola “lavoro”, tra le più pronunciate nelle strade in rivolta, potesse anche tradursi facilmente in programma nazionale borghese. Non deve stupire l’ingenuità di tanti giovani, ma essere compresa e giustificata perfettamente dalla nostra assenza. Sono infatti i comunisti che devono dare carattere scientifico alle richieste popolari e istintive della gioventù che non può che esprimere in forma ibrida la sua voglia di socialismo. Invece, tanti compagni, siccome non han sentito recitare da questi giovani Marx a memoria, ne hanno subito fatto delle marionette di Adam Smith, dimenticando che non sono le idee a muovere il mondo ma gli interessi. E i disoccupati muovono tutti come possono, indipendentemente dallo slogan che preferiscono, verso il socialismo.
Sotto la spinta delle masse, la spinta disperata della disoccupazione, Bengasi ha varato il suo programma borghese. Tripoli, che di masse ne aveva dietro pochine, non poteva che rispondere rinnovando l’appoggio al bastone della sua dittatura. Anche così Bengasi è il progresso, Tripoli la reazione. Ecco perché noi stiamo con Bengasi, anche se dal basso, perché senza progresso non c’è rivoluzione.
Di Lorenzo Mortara